Era il 29 gennaio del 1951. Davanti agli eleganti avventori della Salone delle Feste del Casino
Serviti da camerieri in bianco e forse più attenti allo charme delle loro signore che non a quanto avveniva sul palco, afferrò il microfono Nunzio Filogamo in smoking e sentenziò per la prima volta: “Miei cari amici vicini e lontani, buonasera ovunque voi siate”. Il maestro Cinico Angelini “accese” l’orchestra che attaccò “C’è una chiesetta amor” storica sigla di tutte le sue performances.
Decollò così la più grande avventura musicale, sociale, commerciale e mediatica di questo Paese. Di fatto, la sua colonna sonora.
E pensare che il Festival di Sanremo era… nato a Viareggio. E lì si era tenuto per due anni – diciamo senza “brevetto” – prima che qualcuno sentenziasse “noi abbiano già il Carnevale, che ce ne facciamo di questa roba”? Il grande Sergio Bernardini che aveva proposto le prime due edizioni alla Capannina del Marco Polo (assieme ad Aldo Valleroni, che anni dopo avrebbe scritto “Una rotonda sul mare”) si sentì suggerire dall’”Azienda Autonoma Riviera della Versilia” di sostituire quell’inutile progetto con una ben più attuale mostra canina.
Per la storia i primi due vincitori “apocrifi” furono Brenda Gjoi con “Serenata al primo amore” (1948) e Narciso Parigi, quello dell’inno “Oh Fiorentinaaaaa”, con “Il topo di campagna” (1949)
Tempo un anno di pausa, grazie all’intuizione di un emissario del Casino di Sanremo che era in vacanza in Versilia durante le prime due edizioni “non riconosciute” e dopo aver ottenuto da parte della Rai la copertura radiofonica dell’evento, alle 22 di 67 anni fa la Grande Avventura prese il volo.
Un’orchestra, un presentatore, tre cantanti (anzi quattro: Nilla Pizzi, Achille Togliani e il Duo Fasano, che si divisero, o in alcuni casi, eseguirono assieme le venti canzoni in gara), due hostess che raccolsero i bigliettini del pubblico coi voti. Vinse, come tutti sanno, Nilla Pizzi con la storica “Grazie dei fior” figlia dei delicati versi di Mario Panzeri, in precedenza autore di ben altre birbonate lessicali (“Pippo non lo sa”, “Maramao perché sei morto”, “Il tamburo della banda d’Affori”: per chi non lo sapesse canzoni mimetiche scagliate beffardamente e un po’ incoscientemente contro il regime fascista)
Nessun altro brano di quei primi venti – venti come quest’anno – passò alla storia.
Neanche l’ambiguo “La cicogna distratta” che mise in agitazione i funzionari preposti alla vigilanza. In Francia (anzi nel mondo) si ascoltava “La vie en rose” della quasi italiana Edith Piaf, “Besame mucho” addolciva l’aggressività dell’invasione dei ritmi sudamericani (rumba, samba e bajon): negli Stati Uniti era già stata scritta una trasgressiva canzone che si chiamava “Good rocking tonight” (Roy Brown) e addirittura un’altra che si chiamava testualmente “Rock and Roll” (Bill Moore).
Secondo gli storici, mentre noi ringraziavamo i fiori, uno dei veri apripista della nuova rivoluzione musicale fu il diciannovenne Ike Turner (vi dice niente questo cognome?) che scrisse “Rocket 88”. Billy Haley aveva da tempo smesso i calzoni corti: l’atomica “Rock around the clock”, che avrebbe inciso tre anni dopo, in realtà era già in gestazione sugli spartiti di Max Freedman e James Myers.
Fu in questo clima di faticosa rincorsa che timidamente nacque il primo Festival. Tre mesi e mezzo dopo sarebbe nato anche Claudio Baglioni.
Marino Bartoletti