Il “Corriere della Sera” mi ha chiesto per la sua edizione bolognese (assieme ad altri tre testimonial) un pensiero su Lucio Dalla attraverso una canzone del cuore a tre giorni dal decimo anniversario della sua scomparsa.
Mi è piaciuto sottolinearne, in un mare di talento, la mai ostentata generosità
Con Lucio parlavo quasi sempre di basket: ogni tanto di calcio, qualche volta di fumetti. Raramente di musica. Anche se la scintilla della nostra amicizia si era consolidata grazie a una delle sue canzoni più importanti. Anzi – almeno per me – la più bella del suo primo decennio: di certo la più significativa.
Perché dentro c’era liofilizzata la sua vita: dal contenuto al titolo. Nessuno, prima di lui, aveva mai osato “chiamare” un brano musicale con la propria data di nascita. E quel brano gli aveva letteralmente salvato la carriera.
Cominciai a tampinarlo nell’autunno del 1970.
Lui era già “Dalla”, ma non ancora del tutto. Era già stato a Sanremo, si era già preso grosse soddisfazioni, ma aveva incassato anche discrete batoste.
Lo avevo conosciuto tramite il suo avvocato, un mio amico forlivese di nome Odovilio (converrete che Lucio non poteva avere un avvocato di nome Mario o Giuseppe: Odovilio, detto “Odo”, era perfetto).
Avevo fondato un settimanale di basket che si chiamava “Pressing”: lo facevo tutto da solo, ma proprio tutto! Per dargli (e per darmi) un po’ di tono, ad ogni numero cercavo però una “firma” che lo potesse impreziosire: dai cantori della pallacanestro dell’epoca (Aldo Giordani in primis), a qualche scrittore (non so cosa spinse Luciano Biancardi a mandarmi un articolo), dalle vecchie glorie, a qualche personaggio originale appassionato della materia.
Chiamai Lucio come appartenente a quest’ultima categoria: lo andai a trovare.
Mi portò da Vito: e dove se no? Ne uscii non del tutto sobrio, ma con la promessa che avrebbe scritto un articolo per me. “A patto che possa andare a tema libero”. Che potevo obiettargli?
Nell’articolo spiegò il perché e il percome lui fosse un cestista mancato. Che solo per una immeritata concatenazione di ingiustizie il mondo non l’avesse capito. Mi suggerì anche il titolo, addirittura in latino. Deglutii, lo portai in tipografia. Venne stampato e lo conservo ancora. Gli portai il giornalino.
Nacque una grande, grandissima amicizia.
Non era un buon momento per Lucio dal punto di vista professionale. Ma il fatto che (quasi) nessuno lo chiamasse a suonare e che comunque si esibisse davanti a quattro gatti alla fine risultò un colpo di buonasorte inatteso (anche se lui non lo chiamò esattamente così).
All’improvviso, come uno squarcio in un cielo piuttosto buio, gli arrivò la notizia che la commissione di selezione di Sanremo 1971, dopo quattro anni di rifiuti, aveva accettato una sua canzone.
Quella ancora denominata “Gesù Bambino”. Tutto bello, no? Macché, lo scellerato essendo ormai sicuro che la sua carriera fosse agli sgoccioli e men che meno potessero invitarlo al Festival, nelle ultime settimane l’aveva regolarmente cantata in pubblico. Ma per fortuna nessuno di quei benedetti “quattro gatti” se ne ricordò: o perlomeno lo fece sapere in giro.
A Sanremo fu un trionfo e Lucio non si fermò più. Io gliel’avevo pronosticato. Se ne ricordò.
“Cosa posso fare per te e per il tuo giornalaccio, Marino?”
“Non so Lucio, non so neanche se riuscirò a farlo ancora uscire”
“Ci penso io”
Mi regalò un concerto alla “Porta d’Oro” di Bertinoro. Iniziò la serata con “4 marzo 1943”
“Tieniti l’incasso e salva “Pressing”.” Andò così.
Marino Bartoletti
