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Gocce di Trap di G. Trapattoni e B. Longhi

Tutte le sere, dopo l’allenamento, prendo il treno e torno a Cusano. Mio padre lo incrocio di sfuggita, poche parole, sguardi che ancora si cercano ma non si incontrano.

So che è venuto a vedermi giocare a Varedo, ma non sa che io so. Anzi, credo che lui invece sappia che io so, ma comunque non ne parliamo. È una cosa tra noi. Forse dovrei farmi avanti e dirglielo: ‘Papà, anche se non ti piace il calcio vieni a qualche partita… devi vedere quanto corro!’.
O forse è meglio aspettare l’esordio in prima squadra. A quel punto non dovrebbe più avere dubbi sulla mia scelta.

La prima squadra si conquista sgobbando in allenamento e cercando di non farsi incatenare dalle promesse allettanti della città. La mia educazione cattolica si fa sentire: non sono uno di quelli che cercano di liberarsi dai controlli della società per bere un bicchiere di vino con una bella ragazza del centro.

Finiti gli allenamenti, prendo la mia borsa, salgo sulla 500 blu e torno a casa, spesso con Salvadore e Noletti, che la macchina non ce l’hanno.

L’occasione per firmare una pace definitiva tra me e mio padre arriva a fine giugno del 1958 quando vengo chiamato all’esordio in prima squadra contro il Como in Coppa Italia. Girano voci che per le Olimpiadi di Roma del 1960 la Nazionale sarà affidata a Nereo Rocco, l’allenatore del Padova, e che sarà proprio lui a venire al Milan dopo i giochi.

E girano voci che sarà Gipo Viani, il direttore tecnico del Milan, ad affiancare Rocco alla guida della Nazionale olimpica. Per farne parte bisogna avere meno di ventun anni, quindi magari, impegnandomi come al solito, potrei riuscire perfino a vivere un evento meraviglioso come le Olimpiadi.

Tutti i pensieri si accavallano e insomma, morale della favola, il giorno della partita arrivo allo stadio senza aver detto niente a mio padre. Vinciamo 4-1, tripletta di Galli.

Sulla ‘Gazzetta’ del giorno dopo sbagliano a scrivere il mio nome: Trappattoni, con due ‘p’, un errore abbastanza comune, il più delle volte la gente mi chiama così. Papà viene a sapere del mio debutto dagli amici di Cusano. Sono sulla bocca di tutti: ‘Il figlio del Francesco, il Trapattoni, in prima squadra nel Milan’.

Lui mi aspetta giù in cucina e mi dice solo una frase: ‘Dovevi dirmelo, stavolta. Io non avrò la fortuna di vederti ancora’. Tre giorni dopo quella frase un infarto se lo porta via. È un giovedì, torno dall’allenamento e trovo mia madre che piange disperata, i vicini di casa mi rassicurano che è morto senza soffrire.

Un colpo secco. Perché mi ha detto quella frase? Come faceva a saperlo? Non smetterò mai di pensarci. Credo che avesse già avuto qualche sintomo e che, com’era tipico degli uomini della sua generazione, avesse fatto finta di niente.

Mai lamentarsi. Mai ascoltare il proprio corpo quando ti lancia dei segnali. Dritti, avanti, a lavorare come se niente fosse».

Giovanni Trapattoni, tratto dalla sua autobiografia ‘Non dire gatto – La mia vita sempre in campo tra calci e fischi’, scritta con Bruno Longhi.

Tenacia, testardaggine, voglia di non mollare mai.

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