Tutto parte dalla frase: “Sono un malato di Sclerosi Multipla”
Da lì, si comincia una caduta umana e culturale brusca, e, per chi ci è in mezzo, inconsapevole.
I problemi, indubbiamente, diventano immediatamente dei macigni, e si moltiplicano; la percezione della vita cambia radicalmente, ci si sente perseguitati dalla sfiga, dallo stato, dai parenti, e persino da Barbara D’Urso.
Si smette di pensare, di decidere, di agire.
Si comincia ad aspettare. Cosa? Tutto.
Dalla cura (più che giusto), al caffè a letto la mattina, perché?
“Perché io sono malato di Sclerosi Multipla”.
Capisco, la malattia ci stravolge la vita, e chi vi parla l’ha avuta completamente rovesciata, ma questo non significa smettere di agire, di pensare, di programmare, di progettare, di PENSARE obiettivamente.
Questa condizione fa, nella maggior parte dei casi, chiudere una persona in se stesso, lo fa diventare rancoroso, invidioso, subdolo e cattivo con se stesso e con gli altri. Soprattutto lo fa regredire culturalmente, lo fa cadere nella trappola della pretesa di tutto a tutti i costi. La frase tipica è: “A me è dovuto perché io sono malato di Sclerosi Multipla”.
Non credo di dire castronerie, perché anche io sono un vostro collega, e certe trappole cerco di evitarle ogni giorno.
C’è gente che si è presentata nei vari uffici pubblici con EDSS 0.5 (praticamente non ha niente), indossando un tacco 12, reclamando una qualunque forma di pensione sol perché questa persona ERA MALATA DI SCLEROSI MULTIPLA, oppure reclamando il tesserino di portatore di handicap con una percentuale di invalidità bassissima, per poter entrare liberamente in una ZTL, o per poter sfruttare liberamente i parcheggi dedicati.
Storie di ordinaria schifezza
E pensare, la maggior parte di noi malati di SM sono i premi Nobel della letteratura che aprono una pagina su Facebook, per riportare (male) tutta la propria frustrazione, la propria pigrizia mentale, puntando il dito accusatore di torti veri o presunti. E tutto questo viene spacciato per informazione.
Una frase tipica, abusata, vuota, senza alcun significato dietro la quale nascondono il loro livore, è: “IO FACCIO INFORMAZIONE”.
Si fa informazione con gli insulti, le invettive, le cattiverie?
Fate informazione con la vostra supponenza, rancore, arroganza?
E oltre a questa polpetta indigesta, cosa fate?
A quanto pare questa arroganza ha fatto dimenticare cosa significa l’aiuto, il soccorso di una persona che vive in una condizione uguale o peggiore alla propria.
L’orgoglio e l’invidia hanno chiuso gli occhi e il cuore di buona parte dei miei colleghi, e il dolore, piuttosto che la disperazione che questa patologia alimenta, non giustifica l’indifferenza, il menefreghismo, l’egoismo e l’arroganza che portano dentro.
Smettete di attribuirvi vigliaccamente l’alibi di essere malati, e quindi smettete di voltarvi dall’altra parte, non volendo vedere chi vi chiede un aiuto per darvi qualcosa che potrebbe far comodo anche a voi.
Smettete di pensare che a voi tutto è dovuto, senza fare nulla per aiutare, per quanto potete, chi è nelle vostre stesse condizioni, se non peggiori.
Cominciate a pensare se avete l’orgoglio di mettervi in discussione, o se avete il coraggio di metterci la faccia, la vostra faccia, con la certezza di prendere sicuramente qualche ceffone, e forse qualche carezza.
Spiegate a chi cerca di fare qualcosa per muovere le coscienze, mettendo in primo piano la propria stampella, o la propria carrozzina, presentandosi in pubblico per raccontare e raccontarsi, cosa fate.
Riuscite, per un secondo, ad apprezzare chi realmente, ogni giorno, vuole mettersi totalmente in discussione, organizzando la propria vita, la propria condizione senza pretese, rancori?
Facendosi queste domande, sicuramente a chi vi sta di fianco non darete granché, ma sarà il primo passo per cominciare a volersi bene, e a vivere meglio la vostra condizione.
Per l’amor di dio, non si chiede a tutti quanti di sacrificare tutto per un sogno di alcuni; si chiede di apprezzare ciò che altri, pochi o tanti che siano, stanno cercando di fare, nel loro piccolo, per sé e per gli altri, sostenendoli, supportandoli, incoraggiandoli in ogni modo.
Cominciamo a fare le persone serie, per favore
Credete che così facendo, sbraitando, alzando la voce, bestemmiando al cielo, pretendendo e mai dando, nascondendo la testa sotto la sabbia e non facendo nient’altro, verrete considerati… GUERRIERI?
Perché? Alla fine dei conti più che farvi compatire, voi, campioni del piagnisteo e dell’inutilità culturale, quale atto di guerra eroico avete compiuto, o state compiendo?
Io, come tanti altri malati, rubando la frase alla mia amica Barbara Caramelli, siamo condannati a prendere per mano ogni mattina la nostra malattia, con tutte le limitazioni che essa comporta, con tutti i nostri sogni ammaccati. Non stiamo combattendo nessuna guerra, ma stiamo solamente cercando di sopravvivere al meglio alla nostra condizione.
Guerriero… de che? Ma fatemi il piacere.
Mario Fantasia