In queste ore è venuto a mancare una persona che ha segnato un intera generazione di italiani: Paolo ROSSI, Campione del Mondo del 1982.
Noi di NEUROWEB Channel gli rendiamo omaggio con le parole del nostro Marino BARTOLETTI che ha avuto modo di conoscerlo personalmente.
Per nostra comodità editoriale ci siamo permessi di dare un titolo a questo brano, pensando di non fare alcun torto all’autore che, nel frattempo, ringraziamo per la Sua disponibilità e collaborazione
La Redazione: IN PUNTA DI PIEDI
È morto Pablito! E il sangue ti si gela. No, lui no! Il più mite, il più gentile, l’amico più fraterno degli eroi del Mundial (è il secondo che se ne va dopo Gaetano). E la mente si blocca. E le mani si paralizzano. L’unica cosa che mi sento di fare è riproporre, senza cambiare una virgola, il pensiero che gli dedicai per i suoi 60 anni (per il quale ebbe, come sempre, la non dovuta delicatezza di ringraziarmi). Era un uomo sereno e finalmente felice. Ma, porca miseria, non si fa così!
Quando gli parlai per la prima volta, il Rossi “bravo” si chiamava Renzo. Giocavano entrambi in Serie A nel Como e lui, a 19 anni, sembrava davvero un bimbo: educato e timido. E comunque le partite le guardava quasi sempre dalla tribuna, perché in campo ci andavano, oltre all’”altro” Rossi, Guidetti, Garbarini, Correnti, Pozzato, Scanziani, il vecchio Renato Cappellini e Rigamonti, il portiere che tirava i rigori. E in panchina, oltre al portiere di riserva ci stavano solo altri due giocatori. Nel dicembre del ’75 lo vidi per caso scendere in campo contro la Fiorentina di Mazzone: fu l’unica delle 6 partite disputate quell’anno in cui entrò nella formazione titolare. Non segnò mai. La Juventus, che ne era proprietaria, lo mandò a farsi le ossa (peraltro fragiline) nel Vicenza in Serie B. Quando gli parlai per la seconda volta era già quasi Paolo Rossi: stava esplodendo appunto nel Vicenza dell’indimenticabile GB Fabbri e Azeglio Vicini lo aveva chiamato nella sua bellissima Under 21, con Galli, Cabrini, Manfredonia, Di Bartolomei, Giordano e persino – udite udite – Francesco Guidolin. Da allora ci saremmo parlati tante, tante e tante altre volte ancora: a cominciare dagli esordi in azzurro nella meravigliosa Nazionale che Bearzot, suo “padre”, assemblò e inventò per i Mondiali d’Argentina del 1978, gettando le basi del trionfo di quattro anni dopo. Lì, all’”Hindu Club”, sede del ritiro della spedizione azzurra, nacque “Pablito”.
Ora “Pablito” compie 60 anni: ma non li ha. Non li ha nel cuore, non li ha nell’animo, non li ha nella sua bellezza interiore mai compromessa né dalle (tante e immeritate) amarezza e neanche dalle, a volte ingannevoli, scariche di felicità. Forse li ha nelle ginocchia, martoriate dalle operazioni, dall’usura e dal tempo. Ma per fortuna il cervello è più di un metro sopra ai menischi. Ed è quello di un ragazzo che continua a nuotare nella serenità che si è costruito con amore e tenacia, senza che nessuno gli abbia MAI regalato nulla.
Quando, da campione del mondo e da eroe nazionale, andò da Boniperti a chiedere un piccolo aumento, se ne uscì con un 20% in più che gli garantì 135 milioni all’anno (l’equivalente dello stipendio di un terzo portiere di un attuale top team di Serie A): e Boniperti gli tenne pure il muso per aver osato tanto. Non è mai diventato ricco: e se ha navigato in un accettabile benessere è perché ha sempre investito con intelligenza il suo denaro, dando soprattutto al “mattone” quella fiducia che è tipica di chi ama la concretezza (il suo gioiello è l’agriturismo di Poggio Cennina, un paradiso alla cui inaugurazione mi invitò in una dolcissima notte d’estate di qualche anno fa).
Di lui, in questi giorni, scriveranno (e in parte stanno già cominciando a scrivere) di tutto. Anche chi lo ha visto solo nei filmati o conosciuto solo su Wikipedia. Io non mi avventuro né in riassunti statistici, né in epinici storici, né in scontati trionfalismi calcistici: lo ringrazio semplicemente per avermi regalato la genuinità – rarissima – della sua gentilezza e del suo sorriso.
Marino Bartoletti