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La lettura del lunedì del 12 settembre 2022 – NeuroWebChannel

Cari amici, oggi diamo inizio ad un nuovo appuntamento periodico sul nostro sito e sulla nostra pagina Facebook.

Un appuntamento che abbiamo voluto chiamare “La lettura del lunedì” perché, diversamente dalla maggior parte delle nostre pubblicazioni, non sarà un video e non sarà dedicato ad un argomento predefinito, ma potrà essere una risposta alle domande che di volta in volta ci farete (e ci faremo) o una riflessione su ciò che accade più o meno vicino a noi, che riguardi cioè il mondo della disabilità in modo diretto o indiretto.

L’idea di questo appuntamento, e in particolare la lettura di oggi, nasce da uno spunto suggeritoci da un commento letto in un post su Facebook.

Un’amica ha raccontato in estrema sintesi, appena un paio di frasi, la sua esperienza di convivenza e separazione. Un’esperienza che la maggior parte di chi legge due frasi non può cogliere come invece può fare chi vive la stessa patologia, in questo caso la sclerosi multipla, e gli stessi conflitti e contrasti che si susseguono e si sommano nella vita quotidiana, anno dopo anno, fino ad esplodere in una separazione o fino a far implodere la parte debole della coppia.

Parliamo di coppia, ma sappiamo bene che qualsiasi convivenza che cerca di conciliare la vita di una persona con disabilità e di una persona sana, si rivela una somma di compromessi quotidiani, un percorso fatto di rinunce da entrambe le parti, che mette alla prova anche gli animi più forti, anche l’amore più coraggioso, persino quello più naturale tra genitore e figlio.

Tornando alla nostra amica, abbiamo così saputo che la sua relazione è finita quando, alla richiesta schietta da parte del partner di un rapporto sessuale, lei ha rifiutato e l’ha cacciato.

Vi lascio un momento per pensare.

Già immagino gli schieramenti opposti che prendono le parti dell’uno o dell’altra. Schieramenti in cui non si contrappongono le donne con disabilità e gli uomini sani, ma in cui si intersecano le molteplici visioni diverse di esperienze simili, presenti nella vita di ognuno di noi: donne, uomini, padri, madri, figli, figlie. Non intendiamo cercare un colpevole, né fare un processo, né emettere sentenze. Vorremmo semplicemente sollevare quel velo di pudore che alcuni chiamano privacy, altri discrezione, su un aspetto della vita che per molte persone con una o più disabilità, diventa un’armatura dietro la quale nascondersi e proteggersi.

A questo punto dobbiamo distinguere tra due macro-situazioni che ne comprendono molte altre, ma qui ci limiteremo a parlare delle coppie che si formano quando uno dei due partner (in alcuni casi, entrambi) vive già una propria disabilità, più o meno evidente, più o meno ingombrante, e delle coppie in cui invece la disabilità arriva dopo anni di convivenza.

Nel primo caso, quando una disabilità (sia essa sensoriale, fisica o una menomazione) è congenita o acquisita da anni, fa già parte della routine giornaliera, ha ormai formato o modificato il carattere della persona e ha indirizzato le sue scelte di vita, a volte anche il luogo in cui vive. La disabilità è diventata parte di sé, se accolta, o nemica giurata se la si combatte con tutte le proprie forze. Chi incontra e conosce una persona che “vive in salita” sa già che quella salita dovrà percorrerla insieme al partner, allo stesso passo, condividendo delusioni, progetti, ostacoli e traguardi. Un eroe, due eroi. Ci vorrà forza, complicità, pazienza. L’amore, anche quello più intimo, cercherà e troverà modi e gesti, tempi e piaceri che gli altri non possono immaginare, ma che esistono e appagano, regalando quella felicità cui tutti abbiamo diritto perché ci colma e ci completa, ci rende sazi di vita e ridimensiona ogni paura, allontanando la solitudine e la morte.

Nel secondo caso, è tutta un’altra storia e spesso non è bella. Due persone sane che si incontrano, si conoscono e si innamorano sognano una vita piacevole, soddisfacente dal punto di vista personale e di coppia, vincente dal punto di vista lavorativo, quindi economico, e possono immaginare che in età anziana dovranno affrontare le difficoltà “normali”: camminare più lentamente, viaggiare più pacatamente, circondarsi di comodità e cedere alla pigrizia. Ma un giorno, inaspettatamente, accade: una vertigine che si rivelerà un sintomo, oppure un incidente, un malessere inspiegabile, un danno irreversibile. È l’inizio di un percorso che per chi, fino a quel momento, è stato totalmente estraneo agli ambienti ospedalieri e ambulatoriali, farà parte del trauma o della malattia, perché sappiamo bene a che cosa si va incontro e quanto il “fato” possa rivelarsi avverso anche in questi momenti.

  • È l’inizio di quel percorso che si crede di poter fare in due, ma non sempre è così.
  • È il momento in cui il partner fisicamente sano inizia a chiedersi perché dovrebbe condividere tutto ciò che invece potrebbe lasciare al partner fisicamente danneggiato: paura, isolamento, fallimento, perdita, morte.
  • Ed è il momento in cui qualcuno decide consapevolmente, coraggiosamente, amorevolmente, di restare; qualcun altro invece si sottrae o si arrende o forse, chissà, si salva; qualcun altro si sente obbligato a rimanere ed è questa la situazione più complicata e, da quel che risulta, la più diffusa.

Il partner che rimane senza convinzione né entusiasmo, lo fa per senso del dovere, lo fa per i figli, lo fa perché non sa dove altro potrebbe andare, perché “la gente che deve dire?”, perché “che altro potrei mai fare?”. Si sconvolgono gli equilibri familiari, si deve ricostruire un’armonia o una parvenza di quotidianità per ricreare un mondo vivibile che non crolli addosso ad entrambi.

Capita che ci si scopra più forti di quanto si credesse, che nella nudità di una vita sempre controvento ci si scopra più autentici e si riesca a ricostruire se stessi sia come persona singola che come elemento della coppia. Ogni persona che si sia imbattuta in questa montagna e abbia deciso di scalarla, sa bene che cosa ha affrontato e sa che non si finisce mai di essere messi alla prova.

Ciò vale per entrambi, con una differenza che si rivela però insormontabile: il partner che convive con la propria disabilità vive una schizofrenia tra la persona che era, così come si vedeva allo specchio e come gli altri lo riconoscevano (partner, figli, clan famigliare, amici, colleghi) e la persona che vede adesso e che deve scendere a patti con i propri limiti, che deve ancora scoprire le sue nuove possibilità, che deve rinunciare spesso alla propria indipendenza e alla propria intimità.

Non è facile, può essere così traumatico da richiedere anni di adattamento, dovendo chiedere o accettare l’aiuto di terapeuti per imparare a convivere con se stesso. Una delle rinunce, forse non la prima o la più importante, ma che diventa determinante soprattutto per una donna, è la rinuncia alla cura della propria persona dal punto di vista estetico. Calma, non stiamo dicendo che gli uomini possono rinunciare, ma che gli uomini hanno esigenze diverse e innegabilmente più semplici di quelle di una donna. La differenza della disabilità tra donne e uomini è stata oggetto di conferenze e convenzioni, manifesti e relazioni delle quali parleremo in futuro.

Una donna che, fino al giorno prima o all’anno prima, riusciva a conciliare la vita lavorativa, la vita domestica e la vita di coppia, trovando anche il tempo di essere presente nella vita dei figli, amorevole con i genitori, bella per se stessa e per il partner, di essere ben vestita e attraente, si sente privata di se stessa e dei ruoli che aveva scelto di interpretare. Una vita che si capovolge, inesorabilmente, lasciando precipitare tutto ciò che era stato organizzato e che, con pazienza e caparbietà, continuava a funzionare.

Una donna con una disabilità fisica o sensoriale, con un’estrema debolezza, con movimenti non più armonici, che lotta contro il dolore fisico e gli effetti collaterali dei farmaci, deve inseguire il tempo perché ogni azione richiede più forza e più minuti, ogni desiderio deve essere soppesato o represso. Tutto ciò che svolgeva con gesti quasi automatici e veloci, diventa un insieme di azioni da organizzare e per le quali chiedere spesso aiuto: lavarsi, vestirsi, uscire, persino riposarsi. In tutto ciò, il tempo (ma soprattutto l’aiuto) per essere gradevole per se stessa (depilarsi, pettinarsi, truccarsi, indossare gli abiti preferiti) e per gli altri, diventa un lusso.

In una coppia, una donna che deve chiedere al partner di aiutarla a lavarsi bene, vestirsi e pettinarsi, al primo segno di insofferenza eviterà di chiedere qualsiasi altro aiuto che non sia necessario alla sopravvivenza. In questo scenario, purtroppo più diffuso di quanto si creda, che posto ha il sesso? Se l’amore si è affievolito o ha lasciato il posto all’abitudine, se l’attrazione è stata cancellata dalla perdita di intesa e sensualità, se la tenerezza è stata sostituita dai gesti dovuti e gli unici momenti di contatto sono quelli della routine quotidiana, il sesso si presenta come una mera esigenza e diventa una richiesta di prepotenza. Una risposta negativa genera quasi sempre conseguenze prevedibili, una delle quali è la colpevolizzazione, che per le donne già vittime di una disabilità, diventa una condanna a vita.
Da qui si aprono altri scenari che non approfondiamo adesso, come la violenza sulle donne con disabilità, della quale tratteremo in futuro.

Nel nostro presente, in cui si cerca di accendere i riflettori sulla disabilità parlando di inclusione, di diritti dei disabili, di doveri da parte dello Stato, di iniziative locali e nazionali, di ministeri dedicati, la realtà appare tale soltanto agli occhi di chi la vive e finché non si vorrà oltrepassare la soglia tra il dire e il fare, si continuerà a lasciare che i disabili tutti e in particolare le donne disabili vivano una solitudine che non permette loro di essere se stesse perché gravate di preconcetti e pregiudizi arcaici in una società che preferirà sempre l’ipocrisia per sentirsi libera da ogni responsabilità.

Marilena Aiello