Cari amici, bentrovati per questo terzo appuntamento della lettura del lunedì
Oggi parleremo di un argomento delicato, sul quale ci si trova spesso in disaccordo poiché ognuno di noi lo analizza e valuta quasi unicamente dal proprio punto di vista: il fine vita.
Stiamo parlando di fine vita perché, come molti di voi sapranno, l’eutanasia è illegale in Italia.
In seguito alla sentenza 242/2019 della Corte costituzionale, in Italia è invece possibile richiedere il suicidio medicalmente assistito, ossia l’aiuto indiretto a morire da parte di un medico.
Indubbiamente si tratta di un tema complesso, nel quale si intrecciano aspetti legislativi, morali, etici e religiosi e sul quale si scontrano i pareri dei pazienti in perenne attesa, dei medici consenzienti e dei medici obiettori, dei partiti politici e di alcuni parlamentari che hanno votato secondo la propria coscienza, dei costituzionalisti che cercano un equilibrio tra l’interpretazione delle leggi vigenti e le scelte coraggiose di chi chiede ascolto.
Attualmente in Italia esiste una legge, rimasta però sospesa tra Camera e Senato. Il 10 marzo 2022 è stato infatti approvato alla Camera il disegno di legge sulle “Disposizioni in materia di morte volontaria medicalmente assistita”.
Approdato in Senato, il testo è fermo da mesi sia per una palese mancanza di volontà di proseguire l’iter, sia perché secondo alcuni pareri si presenta poco chiaro, risultando addirittura discriminatorio nei confronti degli stessi malati poiché alcuni sarebbero idonei alla richiesta di assistenza medica e altri no, per una selezione più che discutibile.
Sarà ormai la prossima Legislatura ad occuparsi di questo tema, anche se dai programmi elettorali presentati si può già intuire che non riceverà la necessaria pari attenzione da parte di tutte le forze politiche, che eviteranno così, ancora, il rischio di spaccare l’opinione pubblica dichiarandosi apertamente a favore o contro, con l’eccezione di chi ha già votato per l’approvazione alla Camera.
Fin qui, abbiamo parlato della morte senza nominarla. Parlare di fine vita permette in effetti di mantenere un distacco emotivo dall’evidenza della morte come scelta, come unica alternativa per spegnere la sofferenza, fisica e psicologica, per chiudere il sipario sulla propria esistenza e chiudere le palpebre per non guardare più la mal celata pietà sui volti di chi, impotente, assiste il proprio genitore, un figlio, il partner, un amico.
Ogni tentativo di regolamentare la richiesta di morire diventa purtroppo il pretesto perfetto per distogliere l’attenzione dal dramma della morte stessa e dagli attori che quel dramma vivono e subiscono quotidianamente.
Abbiamo visto la spettacolarizzazione della raccolta firme per un referendum sull’eutanasia (dichiarato poi inammissibile dalla Corte costituzionale) in cui si chiedeva la possibilità di porre fine alla vita di una persona senza rischiare una condanna, presentando questa scelta come una conquista di LIBERTÀ.
Di quale libertà stiamo parlando? A quale libertà facciamo riferimento? Sarebbe bene discutere di diritti, piuttosto che di una imprecisata libertà che, se lasciata all’interpretazione personale, potrebbe trasformarsi da valore supremo in vile strumento contro chi non condivide la stessa visione.
Se dobbiamo parlare del diritto di morire, perché non parlare prima di tutto del diritto di vivere?
Possiamo menzionare decine di documenti, trattati, convenzioni, in cui si elogia la vita come bene assoluto da preservare, da curare e proteggere dal concepimento alla morte. Intenzioni espresse, condivise, scolpite nella storia, che però si scontrano giornalmente con la dura realtà della malattia, della solitudine, della depressione, della povertà.
Perché, se in Italia si parla di fine vita come scelta personale, seppure a caro prezzo, con cui anticipare una morte certa per essere sollevati da un’agonia più o meno lunga e sempre dolorosa, in altri Paesi del mondo si parla di eutanasia come soluzione per terminare una vita ormai superflua e addirittura costosa.
Sembra infatti che in Canada sia più economico invitare i pazienti a scegliere di morire che non assisterli e curarli.
In Canada l’eutanasia è stata legalizzata nel 2016, ampliata nel 2021 ai disabili non morenti e destinata a estendersi ai malati mentali entro il 2023.
Per richiedere un’eutanasia in Canada è sufficiente essere maggiorenni (ma qualcuno ha già proposto di abbassare l’età a 12 anni) ed avere una malattia cronica che compromette il funzionamento sociale, come anche una sordità o un’allergia grave.
I dati federali canadesi mostrano che 10.064 persone sono morte nel 2021 per suicidio medicalmente assistito (MAiD, Medical Assistance in Dying), con un enorme aumento del 32% rispetto all’anno precedente.
In Olanda, questo cammino della morte è iniziato nel 1971 per arrivare, dopo le prime intolleranze e negazioni, a formalizzare le modalità d’azione che un medico doveva adottare di fronte ad un paziente che chiedeva di morire.
Nel 2001 l’Associazione dei Medici ammise l’eutanasia per pietà, che diventò Legge dello Stato nel gennaio 2002. Dopo alcuni mesi, la legge fu ampliata autorizzando il medico a terminare la vita del paziente con la motivazione del “miglior interesse per il malato”.
Leggendo le disposizioni governative vigenti in Olanda, si potrebbe pensare che siano frutto di un percorso di civiltà. Ma la deriva è stata inevitabile anche qui, con medici facilmente compiacenti, pazienti incoraggiati dai parenti o dalle circostanze: un momento di sconforto, un fallimento, una depressione non curata, l’abbandono.
Già nel 2015 la normativa olandese prevede: “Come soluzione alle inevitabili fragilità dell’esistenza umana, alle persone malate di mente è offerta la possibilità di prevedere per tempo la loro uscita da questo mondo, quando altri giudicheranno che sia arrivato il momento”.
Sembra che la morte eserciti maggiore fascino e attrattiva della vita, non solo in chi chiede di spegnere per sempre le sofferenze fisiche, ma forse soprattutto in chi si dichiara pronto a rispondere a questa richiesta.
Torna in mente la domanda posta dal reverendo Neels van Tonder nel suo discorso “L’etica dell’eutanasia” del 2021: “Dove inizia e dove finisce la responsabilità etica di compiere un passo così drastico assistendo e/o aiutando qualcuno a morire?”
Le risposte potrebbero essere molte e diverse tra loro, persino contraddittorie, ma nello stesso discorso si trova una risposta che potrebbe rappresentare il punto d’incontro di visioni discordi per esperienza, per fede, per scienza: “Mostrare misericordia a un morente è un modo responsabile di affrontare il dono della vita che Dio ci ha dato. Tuttavia, la questione cambia quando le persone giocano a fare Dio sulla vita degli altri, anche se la persona chiede casualmente di essere assistita per morire.”
Si potrebbe continuare a parlare di fine vita ed eutanasia per giorni interi, per anni. È un tema che forse riprenderemo, ma oggi concludiamo qui questa lettura, con una poesia di Camillo Sbarbaro (1888-1967), trovata su una rivista di qualche decennio fa e che è stata lo spunto per la riflessione di questo lunedì:
Padre che muori tutti i giorni un poco
Padre che muori tutti i giorni un poco,
e ti scema la mente e più non vedi
con allargati occhi che i tuoi figli
e di te non t’accorgi e non rimpiangi,
se penso la fortezza con la quale hai vissuto,
il disprezzo c’hai portato
a tutto ciò che è piccolo e meschino
sotto la rude scorza
l’istintiva poesia della tua anima,
il bene c’hai voluto alla tua madre
alla sorella ingrata,
a nostra madre morta,
tutta la vita sacrificata,
io mi torco in silenzio le mani.
Contro l’indifferenza della vita
vedo inutile anch’essa la virtù,
e provo forte come non ho mai
il senso della nostra solitudine.
Io voglio confessarmi a tutti, padre,
che ridi se mi vedi e tremi quando
d’una qualche attenzion ti faccio segno,
di quanto fui vigliacco verso te.
Benché il ricordo mi si alleggerisca,
che più giusto sarebbe mi pesasse
inconfessato sempre sopra il cuore.
Io giovinetto imberbe, t’ho guardato con ira,
padre, per la tua vecchiezza.
Stizza contro te vecchio
mi prendeva…
Padre che ci hai tenuto sui ginocchi
nella stanza che s’oscurava,
in faccia alla finestra,
e contavamo i lumi
di cui si punteggiava la collina
facendo a gara a chi vedeva primo,
perdono non ti chiedo con le lacrime
che mi sarebbe troppo dolce piangere,
ma con quelle più amare te lo chiedo
che non vogliono uscire dai miei occhi.
Un pensiero soltanto mi consola
di poterti guardar con occhi asciutti:
il ricordo che piccolo pensando
che come gli altri uomini
dovevi morir pure tu, il nostro padre,
solo e zitto nel mio letto
io di sbigottimento lagrimavo.
Di quello che i miei occhi
ora non piangono
quell’infantile pianto mi consola, padre,
perché mi par d’aver lasciato
tutta la fanciullezza in quelle lacrime.
Se potessi promettere qualcosa
se potessi fidarmi di me stesso
se di me non avessi paura,
padre, una cosa ti prometterei:
di viver fortemente come te
sacrificato agli altri come te
e negandomi tutto come te,
povero padre, per la fiera gioia
di finir tristemente come te.
Marilena Aiello
26 settembre 2022
