Un pò come il mare: se non ti immergi non puoi sapere che sensazione si prova a perdere per un attimo il cielo e vedere solo acqua intorno a te, a sentirti escluso da tutti i rumori, così lontani, esterni ed estranei a quel grande mondo blu
Ma dal mare esci quando vuoi: vedi la luce che ti chiama dall’alto, riconquisti il cielo, respiri profondamente, è aria, è sole, è suono di voci, è rumore di vita.
Dal mondo della disabilità, invece, escono in pochi: alcuni guariscono, altri muoiono, tutti gli altri, il resto degli abitanti, la gran parte, ci vivrà per sempre e per sempre questo mondo sarà quello in cui respireremo, quello in cui cercheremo la luce che ci chiama per uscirne, ma non riconquisteremo il cielo che avevamo prima, non lo stesso cielo, almeno.
E tutto questo non puoi capirlo se non ci nuoti dentro, se non lo vivi in prima persona, se riesci ancora a dimenticarti di guardare dove camminare e come camminare, se non ti chiedi prima se il posto dove stai andando è adatto a te o, piuttosto, se tu sei adatto al posto dove tutti vogliono andare, dove tutti gli altri stanno andando. “Dai, è solo una salita”, “Dai, ci sono soltanto venti gradini”, “Dai, quando arriviamo ti siedi”.
La disabilità non si può spiegare più di tanto, chi ha sensibilità capisce, chi ha volontà prova a comprendere, chi ama resta, anche senza chiedere nulla.
Un mondo quasi parallelo fatto di donne e uomini, vecchi e bambini, e anche di animali. Un mondo che si interseca con quello degli altri, che prova ad inserirsi, che vuole amalgamarsi, ma che in realtà resta ad un livello superiore, a quel livello che si raggiunge quando ci si accorge di ciò che si ha e di ciò che non si ha più, di quel che si può e di quel che non si può più, ma soprattutto ci si accorge di chi si è davvero.
Ti accorgi di ciò che sei e di chi sei, indipendentemente da ciò che hai e da chi hai vicino. Impari a contare su te stesso e a chiedere aiuto, impari a trovare il tempo che prima sembrava sempre a tua disposizione, quasi fosse un tuo suddito: bastava soltanto fare più in fretta, andare più veloce, correre, rimandare le soste. Impari a trovare la pazienza in te stesso e a chiederla agli altri, superando qualsiasi presunzione e superbia, diventando amico intimo dell’umiltà e, spesso, del silenzio.
Cambiano le tue abitudini, i tuoi interessi, le tue letture, i tuoi orari, le tue scelte, le tue compagnie. Cambia la dimensione degli oggetti, cambia il peso degli stessi: tutti più pesanti e ingombranti. Cambia l’altezza degli armadi, degli specchi, dei ripiani del frigo. Cambia la larghezza dei passaggi e delle strade, delle corsie dei supermercati, cambia lo sguardo della gente e cambia il tuo. Soprattutto cambi tu. Perchè la disabilità esalta se stessi, nel bene e nel male.
La disabilità è una lente di ingrandimento per le virtù e per i difetti, non si possono minimizzare le prime, non riuscirai a nascondere i secondi. Ed è una lente che ti consente di vedere gli altri sotto una luce nuova: nella loro più disarmata paura, nel loro imbarazzo. Perchè la verità è sempre questa: tutti pensiamo (finché possiamo pensarlo) “Per fortuna non è successo a me”.
E da questo pensiero originano gli atteggiamenti, nei quali si rivela il proprio animo: chi, con vera fede, ringrazia il cielo di essere stato salvato da questa punizione; chi si sente inattaccabile nella propria incolumità; chi preferisce guardare altrove e dimenticare; chi vuole indagare con una curiosità morbosa quanto inutile e fastidiosa; chi semplicemente c’è e parla proprio con te come persona, non con te come disabile.
E in un mondo sereno, la normalità sarebbe proprio questa: essere persone, prima di tutto, prima dell’identità sessuale, del colore degli occhi e della pelle, della forza e della vulnerabilità, dei gusti alimentari, della cultura e dell’età, della salute e della disabilità. Essere vere persone.
di Marilena Aiello
La redazione di ScleroWeb